Photo: Visitors crowd an artificial wave pool - July 27, 2013. REUTERS/China Daily
Dello stesso episodio...

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Una volta insegnai a un tassista turco a dire "grazie" in italiano:"minchia". Si, sono una persona meschina, lo so. Questa volta la mia allieva è stata un'adolescente cinese. Non per vantarmi, ma credo di avere un dono per l'insegnamento delle lingue.

Guilin è una città che mi è piaciuta moltissimo. E’ verde, c’è il fiume, è circondata da queste montagne spettacolari, è piena di parchi ed alberi, ci sono due laghi, una montagna a forma di elefante, un picco da cui si può ammirare il panorama dall’alto, ponti, un sacco di cartelli scritti in inglese sgrammaticato, statue a forma di rane e maiali e un botto di gente che gira in mutande. Perché fa caldo, un caldo tropicale, un caldo che ti fa desiderare di strapparti la pelle della faccia. Ma soprattutto perché Guilin sta in Cina, e in Cina si può perfettamente andare in giro in mutande, in pigiama, in camicia da notte, e nessuno pensa che sei appena evaso da un manicomio criminale.

Quando sono arrivata a Guilin, per prima cosa ho sudato: copiosamente, a cascata, a finire mai. Poi, appena trovato un hotel – perché io e il fido G. ci guardiamo bene dal prenotare in anticipo, preferendo aggirarci per le città a piedi, per chilometri, sfidando gli elementi (e se ci dessero una croce di ebano da 150 kg a testa sulle spalle la porteremmo con serenità) – perché questo smonterebbe l’avventura, e a noi l’avventura cci piace assai. Ecco, dopo aver impregnato i miei vestiti di sudori e puzze svariate, mi sono resa conto di aver portato un solo paio di pantaloncini corti e, inspiegabilmente, 3 paia di pantaloni lunghi. Questo per dire che alla fine della settimana i miei pantaloncini erano vivi: parlavano, e credo che in una o due occasioni mi abbiano anche chiamata mamma.

Comunque. La prima sera a Guilin, mentre camminavo insieme al fido G. alla ricerca di cibo, un topo mi ha attraversato la strada. Che non c’è nemmeno niente di speciale a vedere un sorcio in Cina, solo che lui sarà stato alto un metro e settanta, e con lo spostamento d’aria mi stava catapultando dall’altra parte del fiume. Il maestro Splinter, solo un po’ più brutto.

A Guilin, poi, è successo che il fido G. ha provato l’ebbrezza di avere delle fans.

Esterno pomeriggio: stiamo seduti al terrazzino di un bar quando una famigliola cinese con bambina passa davanti al tavolino e lancia un saluto caloroso, da vecchi compagni di banco che si incontrano dopo 15 anni. Dopo un po’ la famigliola torna indietro e papà-Cina si avvicina con bimba-Cina incoraggiandola a parlare. “Hello”, si lancia bimba-Cina in inglese “posso parlare un po’ con te?” e si rivolge al fido. I due si scambiano qualche frase di saluto e poi la bambina chiede se può fare una foto con lui. Nel frattempo arrivano altre due bimbe-Cina scortate dai rispettivi papà-Cina, che sull’onda della prima vogliono tutte parlare col fido G. Io sono un elemento di decoro che si staglia sullo sfondo: un attaccapanni, per dire; la luce del fido irradia tutta l’atmosfera. Il fido mi si sta chiaramente ringalluzzendo sotto gli occhi, devo ricordargli che sono minorenni. Dopo un po’ che la storia va avanti il fido G. è a corto di argomenti, allora per dissipare il palese imbarazzo delle bimbe-Cina, che stanno ritte e zitte al suo cospetto, intervengo con un paio di domande a piacere, che le bimbe prontamente raccolgono, rispondendo però all’indirizzo del fido G. e richiedendogli ancora qualche altra foto. Alla fine le bimbe-Cina, accompagnate dai papà-Cina, si allontanano salutando ancora con la manina. Chi salutano? Il fido G.  Io ancora sto cercando di riprendermi dal fatto di non essere stata cacata di pezza dalle bimbe-Cina, che pare niente ma sono cose che ti segnano.

Il giorno dopo, però, sono stata oggetto di attenzione da parte di una diciassettenne cinese: la studentessa d’inglese. Una cinese particolarmente in carne, diciamo 150 kg di bontà in olio d’oliva: mi ha chiesto se poteva parlare un po’ con me e ha tirato fuori un quadernone pieno di domande tipo: “quante volte mangi il riso nel tuo paese?”. Io ho risposto a molte delle sue domande, poi però ho iniziato ad annoiarmi, la verità. Finchè è arrivata quella che mi ha fatto scattare il colpo di genio dell’undicenne: ”Qual è la tua espressione preferita nella tua lingua?” E io, senza esitare, neppure per un istante, ho risposto: “Suca!”. Ecco, non per vantarmi, ma penso che potete essere orgogliosi di me: soprattutto tu, mamma. E poi l’ho anche aiutata a scriverlo sul quaderno e a pronunciarlo correttamente: S-U-C-A, ripetiamo insieme, one more time, perfetto così. Poi per qualche strana ragione lei ha voluto darmi il suo numero di telefono: “one, three, five, six, AHI!”,  che ho pensato vuoi vedere che le ho tirato un calcio allo stinco involontariamente?  e ho chiesto scusa. “AHI! AHI!” continuava a ripetere lei, e io per cinque minuti interi non sono riuscita a capacitarmi del perchè urlasse AHI! perché io non la stavo nemmeno sfiorando, me ne sono accertata più volte. Alla fine, ma solo dopo che mi ha preso la penna di mano e l’ha scritto su un pezzo di carta, ho capito che con AHI voleva dire EIGHT (8), e finalmente mi sono rasserenata.



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