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Siamo isola o arcipelago?


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Penso che nessun uomo sia un'isola, che da solo nessuno sia davvero compiuto, credo che tutti facciamo parte di un arcipelago di relazioni indispensabili alla vita. Ma sono altrettanto convinta che...

E dunque, come accennato nella puntata precedente, mi è stata proposta la splendida opportunità di essere impacchettata e spedita dalla mia azienda a lavorare in un posto che, più che per lavorare, nell’immaginario collettivo medio è conosciuto come posto per scopare.

Di conseguenza, ho preparato la mia valigia in fretta e furia e ho issato le mie sacre chiappe su un volo per Mykonos.

Cose che tipo il giorno prima stavo valutando l’ipotesi di aprirmi le vene in Grand Place e il giorno dopo stavo valutando l’ipotesi di farmi venire a ripescare dalla guardia costiera greca al largo della Turchia. Perchè nella mia scala di 50 sfumature di blu, io non paparìo, io nuoto forte.

Non starò qui a parlare della fortuna che mi è capitata tra capo e collo, di quanto orgogliosa mi abbia resa il fatto di essere stata scelta tra tanti per questa esperienza, di quanto professionalmente sia cresciuta e di quanto la mia teoria del seminare bene, alla fin fine, a volte paga.

Ciò che più ho tratto da quest’opportunità è la consapevolezza di quanto profondamente isolana io sia. Consapevolezza che verrà qui di seguito esposta ai fini divulgativi, come la Teoria del Cavaliere Nero.

In breve: mi ritengo una persona fondamentalmente aperta, capace di stare in compagnia, ricerco ed inseguo la relazione con gli altri, ma arriva un momento – imprevedibile ai più e soprattutto a me stessa – in cui ar cavagliere nero, che sarei io, nun je devi cacàrcazzo.

Sin da adolescente mi sono sempre chiesta: l’essere umano è isola o arcipelago? Riusciamo a bastare a noi stessi o abbiamo bisogno di unirci ad altre isole per trovare un senso?

Naturalmente non esiste una risposta univoca, se esistesse sarebbe comunque sbagliata e di certo non verrebbe svelata su un blog di cui nessuno sentiva l’esigenza.

Ma facciamola breve: una notte, dopo aver trascorso l’intera giornata et l’intera serata con alcuni colleghi conosciuti da poco, mi sono sentita sociopatica. Le persone di cui mi ero circondata non erano gli amici di una vita, ok, tuttavia si trattava di persone complessivamente piacevoli - a parte una che ha passato le intere 24 ore trascorse insieme a scattarsi selfie. Solo che a un certo punto, nonostante stessi globalmente molto bene, volevo di fatto schioccare le dita e ritrovarmi da sola. Volevo continuare a stare dove stavo, a bere quel bicchiere di vino, a sentire l’aria fresca della notte. Non volevo niente di diverso da quel che stavo vivendo, solo che non ci doveva essere nessuno. Dovevo trovarmi, il più presto possibile, da so-la.

Che non è esattamente il pensiero di una persona fondamentalmente aperta, capace di stare in compagnia e che ricerca ed insegue la relazione con gli altri, ecco.

Per cui, ho avuto paura di me stessa. Mi è venuto in mente che forse ho un problema, che probabilmente il passo successivo sarebbe stato sparare con un mitra in un’asilo, votare Salvini, partecipare a un casting per Uomini&Donne, chessò. Sono stata travolta da una crisi esistenziale durata ben 4 minuti, poi il vino ha fatto effetto e sono accappottata a letto.

Tempo dopo, mentre sul volo del ritorno sorvolavo l’arcipelago delle Cicladi, ho visto dall’alto tutte queste isolette, tante, piccine, vicine ma non così tanto da potersi raggiungere tra loro, nemmeno da chi nuota forte, per dire. Mi è tornato in mente il pensiero di qualche sera prima e l’ho allargato ad uno schema di comportamento all’intera mia vita.

Ho compreso l’ambivalenza continua di chi vuole partire sempre, lasciare l’isola perchè se resta troppo alla fine gli manca il respiro, chè un’isola è troppo poco per chi ha il cuore troppo pieno, è scarpa troppo stretta per chi ha il piede gonfio di cammino. E d’altra parte, tuttavia, l’isolano che se ne va, ricerca costantemente il suo lembo di terra pure dove non c’è, e se gli sfugge quello, prova a riacciuffarne uno simile, piccino, percorribile a piedi, poichè una barca è già viaggio troppo lungo, e misterioso, e periglioso l’arrivo, se poi si arriva, vai a sapere i misteri salati.

E dunque egli si aggrappa a quello scoglio familiare, e ovunque vada si ritrova costante alla ricerca perenne di un pezzo di terra amico, tangibile, concreto. E magari, magari tende all’abitudinarietà, perchè della vastità del mare ha pieni gli occhi, ma le mani devono poter toccare muri, i piedi terra e il cuore casa.

Ecco perchè, forse, l’isolano ha bisogno di evadere e sogna il ritorno, gode della compagnia ma poi brama l’isolitudine.

Penso che in realtà nessun uomo sia un’isola, che da solo nessuno sia davvero compiuto, credo che tutti facciamo parte di un arcipelago di relazioni indispensabili alla vita. Ma sono altrettanto convinta che, più spesso in noi isolani che negli altri, riemerga la primitività dell’isola interiore che riaffiora dal mare e si riappropria dello spazio che è sempre stato suo.

Che abbiamo bisogno del movimento, del viaggio, dei botti, della festa, financo del caos. Ma al tramonto, quando cala lo spettacolo del sole, conosciamo più di tutti gli altri il gusto dolce della malinconia di una casa, su un pezzo di terra, al centro del mare.



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