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natale che vieni
quando te ne vai?

il fantasma del natale passato

Photo: hungamapoint.com

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Adoro essere a casa: mi era mancato tutto, persino la canzoncina di natale di radio deejay. Solo che tutte le (poche) volte che torno, devo rispondere a una domanda di cui odio i risvolti. Quindi ho deciso di dedicare questo post a tutti quelli che, in buona fede e senza nemmeno saperlo, mi fanno un po' male. Non voglio farvi male anch'io, perciò meglio se seguite il consiglio.

Eccomi, sono qui, finalmente a casa. Un anno è lungo da passare, ma certi anni possono esserlo di più. Sono seduta al tavolo di legno della cucina di mia madre,sono le sei del mattino. Sul perché io sia sveglia con gli occhi a gufo alle sei del mattino potremmo discutere a lungo, o anche no; potrei dire che sto ancora cercando di smaltire il jet lag, per esempio, ma non sarebbe vero. E’ che stanotte ho ricevuto la visita del fantasma del natale passato: gliel’ho detto di ripassare più tardi, ma lo stronzo s’è piazzato là sul bordo del letto e m’ha detto sticazzi, io t’aspetto qua. Ora, provateci voi a continuare a ronfarvela tranquilli col fantasma del natale passato seduto a venti centimetri che vi fissa. Qualcuno dovrebbe insegnarglielo, ai fantasmi del giorno d’oggi, che se ti vuoi presentare alle sei del mattino minimo devi avere l’autorizzazione dai piani alti, e quella ce l’hanno solo i testimoni di Geova. Mpf! Non ci sono più i fantasmi di una volta. E quindi ho deciso di alzarmi, mettere su il caffè e prepararmi al confronto con lui, che voi non lo sapete ancora, ma è uno squilibrato pericolosissimo.

L’anno scorso, complice tutta una serie di fattori non completamente riconducibili alla mia volontà, ho iniziato a desiderare il natale – e quindi il rientro a casa – ad agosto. Contavo i giorni con le dita dei piedi,  facevo la stecca col sangue sul muro della cucina, mozzicavo la gente ai polpacci alle fermate della metro. Da agosto in poi, mi sono trasformata in una sottomerda bionda che si muoveva a caso nello spazio, con le orbite vuote, ripetendo a loop la frase  Gesummìo fammi tornare a casa. Quando finalmente l’aereo è atterrato a Roma, due settimane prima di natale, io ho iniziato a piangere. Non ho smesso più fino a febbraio. Mia madre per poco non chiamava l’esorcista. E’ stato il natale dell’anno scorso a farmi comprendere nel profondo il significato del termine isteria. E’ stato il natale dell’anno scorso a far comprendere a chi mi circondava il significato del termine trituramento di coglioni. Quest’anno invece non ho versato ancora nemmeno una lacrima, a parte qualche giorno fa. Però in tv davano Lilli e il Vagabondo, e davanti a lilli e il vagabondo devi piangere, a meno che tu non sia un cyborg, a meno che tu non sia il fido G., per dire. Perchè Biagio che lascia l’ultima polpetta a Lilli e gliela spinge col naso mentre la guarda con quegli occhi irresistibili da figlio di puttana non ti può lasciare indifferente.

Comunque, anche se quest’anno non ho ancora rotto gli argini non vuol dire che non sia entusiasta di essere tornata a casa. Adoro essere qui, mi era mancato tutto, persino la canzoncina di natale di radio deejay. Quando sono arrivata all’aeroporto di Fiumicino, la prima immagine che ho captato sullo schermo di una tv è stata la faccia di Razzi, e se non ho pianto davanti a quella vuol dire che il fantasma del natale passato si può attaccare a sto cazzo, non so se mi spiego.

C’è un solo aspetto che eviterei come eviterei una purga alla ‘nduja. Il dialogo tipico del conoscente che ti incontra per la strada e immancabilmente ti rivolge codeste, testuali parole:

“Oh, ciao! Quando sei arrivata?”

“Qualche giorno fa”

“Ah, bene! E quando te ne vai?”

“…”

Ora, io di base non sono una persona completamente irragionevole, nonostante le apparenze. Ho una certa capacità di elaborazione della realtà, ok? Diciamo che con un minimo di sforzo io lo capisco che non me lo chiedi perché non vedi l’ora che io mi levi fuori dalle palle, per la serie quest’isola è troppo piccola per tutti e due, per carità. Però proviamo a fare uno sforzo da entrambe le parti, ti va? Cimentiamoci nelle grandi intese, che va tanto di moda. Lo capisci pure tu, senza l’intervento della maestra di sostegno, che ogni volta che tu mi chiedi quando me ne vado, è un po’ come se mi stessi, chessò, pestando un alluce, pinzando un capezzolo, sputando negli occhi di proposito, nevvero? Ecco, se non lo sapevi prima, perchè non ci avevi mai fatto caso, adesso lo sai.

E quindi facciamo che mi servirò di questo blog per una becera comunicazione di servizio; lo scrivo oggi, una volta per tutte a futura memoria. Me ne vado tra due settimane. Ok? Basta. E questo post valga da Gazzetta Ufficiale de li cazzi mia: la legge non ammette ignoranza, tiè. Per cui, da questo momento in poi non avrò pietà: nel momento in cui ti avvicinerai a me, sorridente e inconsapevole, e mi domanderai con l’aria ingenua “e quando te ne vai?”, io per non saper leggere né  – men che meno – scrivere, mi sentirò giustificata a partirti di capoccia sui denti.

Uomo avvisato, incisivo salvato.

 



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