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Un mese fa sono tornata a casa e ho pianto tantissimo. E' stato meraviglioso. A tratti sembravo psicotica, davvero. Ma non mi sono sentita mai tanto libera.

Quando ero piccola, si guardava la tele in cucina.

I film iniziavano ancora alle 20.30, mentre Madre preparava da mangiare. Gli inizi dei film se li guardava sempre così, a spizzichi e mozzichi; poi finalmente si sedeva, e spizzicando e mozzicando la cena, entrava finalmente nella storia. E piangeva. Io ero piccola, la prendevo in giro: “Perchè piangi? E’ tutto finto, non vedi?”

“Piango di commozione”, faceva lei. Commozione: che vuoi che ne sappia, una bambina di 6 anni?

A 15 anni, ogni volta che vedevo Madre asciugarsi le lacrime davanti ad un film, scaturiva in me un sentimento di altezzoso rigetto, una di quelle intolleranze grette e vischiose che non sai da dove arrivano ma che ti attaccano alla giugulare all’improvviso. Era qualcosa di insopportabile, una dimostrazione di debolezza inaccettabile ai miei occhi, perennemente azzurri, imperturbabili. Perennemente asciutti. A quel punto della mia vita, conoscevo bene il significato di commozione, ma ne rifiutavo qualsiasi implicazione soggettiva. A me non poteva succedere. A me non doveva succedere. Io ero forte, mica cazzi.

Mi guardo indietro e mi rivedo sprezzante, presuntuosa, spocchiosa. Mi rivedo rigida, severa, affaticata nella costruzione dell’armatura di presunte sicurezze che mi sarei portata dietro, forse a sproposito, per anni. La tipica adolescente che cerca di costruirsi un’identità, e lo fa negando quello che più le fa paura.

Mi guardo indietro, e più mi guardo, più mi faccio una tenerezza infinita.

Un mese fa sono tornata a casa e ho pianto tantissimo. E’ stato meraviglioso. A tratti sembravo psicotica, davvero. Ma non mi sono sentita mai tanto libera.

Ho pianto per la prima volta a mezzanotte, quando ho premuto play sul mangianastri che sta in bagno ed è partita “Gli anni” degli 883. Mi lavavo di dosso le ore di viaggio e piangevo sotto la doccia per la commozione di avere ancora, dopo 20 anni dall’averli conosciuti, gli stessi amici dell’anima. Che cambiano i sentieri, i paesi e i fusi orari, ma i cuori restano sempre là: stessa storia, stesso posto, stesso bar.

Mi sono commossa al pensiero di noi in una pizzeria, con le nostre rassicuranti idiosincrasie mentre ci raccontiamo gli ultimi mesi e progettiamo quelli futuri. C’è chi segue il filo di Arianna, chi esplode di colori, chi pianta semi di melograno e chi invece pianta un lavoro e ricomincia un sogno verde altrove. Mi sono commossa anche all’idea di pagare un conto di 50 Euro in 5, perchè certe cose, ormai, only back home.

Ho sorriso di commozione seduta al sole di Marzo su una panchina a Santa Maria La Scala, ai racconti di Madre e Zio sul loro nonno, che li portava al mare, e al posto del costume, indossava una tutina. Di lana. Nera. In una Sicilia torrida degli anni ’50, come i gradi che fa d’estate, pressappoco.

Mi è venuto un groppo in gola in ospedale con Madre durante la visita di controllo, perchè adesso sta bene, ma quando si è fatta male io non c’ero e pure se provo a razionalizzare – e ci provo – è comunque una cosa con la quale non riesco a farci i conti, mai. Persino adesso, che in famiglia abbiamo ricominciato a percularla a pieno regime. Persino adesso, che sulla stessa panchina assolata di Santa Maria La Scala, giriamo la docu-fiction sulla dinamica dell’incidente, con Zio Saro nei panni del soccorritore e Madre nei panni di Madre – per la prima volta sul grande schermo – io se ci penso troppo, a ‘sta cosa, apro gli argini e finisco fra tre anni, ecco.

Mi sono venuti i lucciconi quando Zio Nino mi ha portata al bar di fronte al negozio e mi ha comprato i biscotti per Patrizio, almeno gli facciamo mangiare qualcosa, a stu carusu. E a me, a me mi ha comprato lo sciatore al cioccolato.

Mi sono commossa quando sono andata a comprare la scorta di formaggi da Francuzzo, che ogni volta, ci scattiamo una foto davanti al camioncino e lui mi chiede con quegli occhi sorridenti e canterini: “M’a pozzu fujiri a ‘to mà?”

Ho pianto al panificio da Pinella perchè nonostante si alzi alle 4 del mattino, quella il sorriso pare non possa perderlo mai, nemmeno se le scartavetri la faccia. In 30 secondi netti, ignorando totalmente i clienti che stava servendo, mi ha fatto un riassunto della sua vita negli ultimi 3 anni, inclusa presentazione del nuovo nipotino, accomiatandosi con un “Ciao paparedda”. E se pensate che stia esagerando con le lacrime, vi sfido tutti a resistere al Ciao Paparedda, e poi ne parliamo.

Come ultima frontiera del disagio, proprio, mi hanno commossa i fruttaroli sotto casa, questi omaccioni di quartiere, più d’uno pregiudicato, che ogni volta che passo mi salutano con rispetto. Che vabbè, me ne sono andata, torno poco, sugnu furastera, ma mi riconoscono ancora come parte del branco.

Ho pianto un miscuglio di sentimenti profondissimi e ingarbugliati quando sono ripartita, senza freni abbracciata a Madre, in un gioco di ruoli finalmente invertito, nel quale adesso non ho più pudore a mostrare quanto male mi segna il distacco.

Chiaramente, ho pianto lacrime volanti mentre l’aereo si alzava su un mare color pomeriggio, mentre il mio vicino di posto taciturno fotografava l’Etna, la signora, sovrastata da una nuvola circolare e dai contorni così nitidi da sembrare finti, come corona sul capo di una regina. Mi sono ritrovata a guardare di sottecchi la fotografia sul suo cellulare, e quando i nostri sguardi si sono incrociati, per una frazione di secondo, abbiamo compreso – sorridendoci – che stavamo pensando esattamente la stessa cosa.

L’altro giorno parlavo con un’amica, mi diceva che da un po’ di tempo si sente in balia delle emozioni, che non si sente capace di controllarle, che la mancanza di controllo la fa sentire a disagio.

Vorrei dirle che sentirsi in balia delle emozioni è straordinario. Che dovrebbe imparare a non temerle, a lasciarsi andare e goderne più che può. Che se si sente di abbracciare, abbracci. Che se si sente di baciare, baci. Che se si sente di piangere, pianga. Che se si sente di sbroccare, sbrocchi perdio! Perchè è infinitamente meglio soffocare di emozione viva che non sentire più niente. Che il rischio di non sentire più niente è dietro l’angolo ed è semplicemente spaventoso. A volte bisogna letteralmente lasciarsi andare a corpo morto e vedere dove ci porta la corrente. Come gli stronzi? Sì, come gli stronzi, se necessario.

Adesso conosco la commozione infinitamente bene: l’accetto, l’abbraccio e me ne faccio cullare.

Adesso che sono diventata grande, adesso che guardando un film piango come se fossero esplose le tubature dell’anima senza sentirmi difettosa, mi sento come prosciolta da una condanna: la condanna a sembrare sempre ciò che gli altri si aspettano da me. Ma soprattutto la condanna a sembrare sempre ciò che io stessa mi aspetto da me.

Infine, ho imparato che per quanto inarrestabile possa essere la forza di gravità, per quanto pesanti possano essere i lacrimoni, a una certa, fidati, vengono arginati: dalle pieghe intorno alla bocca, che non per nulla si chiamano rughe del sorriso.

Che a qualcosa, ‘ste rughe, dovranno pur servire, no?



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