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Dove c'è yoga
c'è Patty

namastè! Alé!


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Sebbene con questo post mi sia giocata qualsiasi possibilità di reincarnazione futura - chessò - in Belen Rodriguez, sono comunque lieta di aver provato quest'esperienza.
Se non altro perchè...

Ultimamente mi sono avvicinata allo yoga. Diciamo che Patty si è messo a chiodo come solo lui sa fare così bene ed io, che mai mi sottrarrei ad una novità, ho deciso di mettere da parte il mio vile scetticismo e mi sono lasciata convincere, e pure di buon grado.

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Per onor di cronaca, non è la prima volta che mi approccio a questo mondo. Durante il mio  pluriennale soggiorno in Cina, mi sono ritrovata diverse volte all’interno di una sala popolata da cinesi, capitanati da una disarticolata insegnante cinese, parlante – chiaramente – cinese. Altrettanto chiaramente, ogni volta che sta poraccia apriva la bocca, io non capivo una fava imbottita di niente. Quando non capisci la lingua – in quel caso la lingua del demonio, non ce lo dimentichiamo mai – puoi solo imitare i gesti: di base, invece di elevare il mio spirito, mi sentivo regredire al livello della scimmia mesozoica.

Ho pensato così di dare una seconda chance al mio karma qui nel civile Belgio.

La prima lezione non è andata affatto male. Ho fatto yoga in una sala riscaldata a 39 gradi, che poi è tipo la temperatura media di Febbraio a Catania, ecco. Non mi poteva abbattere, insomma. Ero carica a pallettoni, ve lo dico. Ho scoperto di avere muscoli dei quali ignoravo l’esistenza, me ne sono pure spuntati di nuovi in posti in cui gli esseri umani non dovrebbero averne, credo. E’ andata bene, ho sentito dell’energia fluire nel mio corpo; nei rari momenti in cui sono riuscita a distendere le gambe senza farmi partire il porcatroia ho anche pensato di aver trovato il mio centro di gravità permanente. Poi però è partita ‘sta faccenda dell’OHM di gruppo. Cioè, non per screditare la sacralità della cosa, ma io sono probabilmente una persona brutta. Non lo so, ma ogni volta che partiva st’ohm, mi saliva questa sensazione di incompletezza. Cresceva in me un’urgenza interiore, una ricerca intima di compimento, un’impellenza spirituale inarrestabile, chettedevodì. Una cosa tipo:

OHHHM…

OHHHHHHM…

OHHHHHMMMEMMIEEEEERD! Ecco.

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Della seconda lezione non ricordo molto. Ero troppo concentrata a sbavare sull’istruttore, che era la copia sputata di Matthew McConaughey. Ecco, se lo scopo dello yoga è la concentrazione, stavolta avevo centrato il target. Quando l’ho detto a Patty, Patty ha risposto che era finocchio. Come pugnalare a morte un karma positivo. La lezione è finita con Matthew che cantilenava shanti, shanti, shanti, pace. E uno stronzo che russava. Che non è esattamente un toccasana per la meditazione. Quella altrui, dico.

Alla terza lezione ho rischiato lo svenimento. Ho retto bene il colpo per un po': ho fatto un sacco di Tadàsana e Savàsana, pur non sapendo che straminchia fossero, ho ohmmato come se non ci fosse un domani, ho resistito nella posizione del cane morto e in quella del merlo ferito, ma quando mi è stato chiesto di arrotolarmi le cosce intorno alle orecchie, voila, ho ceduto. La mia religione purtroppo, mi vieta di rimanere paraplegica.

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Alla quarta lezione ho sbagliato aula e sono finita in una classe in cui, giuro, il più scarso levitava. Tutti gli altri non avevano le ossa, altrimenti non si spiega. L’istruttore mi ha fissata tutto il tempo. Pure quando mi dava le spalle. Pure dallo specchio. Pure quando è stato tipo 10 minuti a testa sotto, paonazzo che ho pensato che gli sarebbe schizzato il cervello a spruzzo dalle narici. Sorridendomi. E’ stata la cosa più agghiaciante, lo giuro.

Alla quinta lezione, quando il maestro ha iniziato a cantare in sanscrito, ho pensato che fosse un po’ troppo per me. Ho fiutato che stava per mettersi male, e infatti: “And now, let’s sing all together!”. Ora, non è per male, ma non mi puoi chiedere di cantare, insieme ad altri 40 sciroccati, sillabe a caso in una lingua sconosciuta, se prima non mi dici che significa. Metti che mi stai facendo declamare la traduzione di “Non dirgli mai” di Gigi D’alessio a tradimento? Che ne so io? E’ una questione di principio. E scusa tanto se.

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Insomma, ricapitolando, alcune delle lezioni che ho imparato da questo breve corso intensivo di yoga:

  1. Tra di loro, ESSI si appellano fellow YOGI. Ora, tu forse non lo sai, ma io sono una mente cretina, non puoi chiedermi di rivolgermi ad un mio compagno di corso con l’appellativo di YOGI, poiché – lo capisci da te – mi costringi intrinsecamente a rubargli il cestino della merenda nello spogliatoio mentre si fa la doccia.
  2. Alla fine delle lezioni, i fellow yogi non si parlano, non si rivolgono la parola, non si salutano. Si bevono la tisana al finocchietto selvatico, riflettono, meditano… Io non lo so se è il preciclo o se su di me ha un effetto scomposto, ma alla fine di ogni lezione, ho una fame che se solo solo ti metti tra me e il primo kebabbaro all’angolo , io minimo minimo, ti azzanno i polpacci a carne viva.
  3. Su di me, la meditazione guidata equivale a una tortura medievale longobarda. Non ce la faccio, mi innervosisco, vedo quelli che ci riescono e mi viene da urlare. Rendo di più in altri contesti. La mattina, a contatto con una superficie in ceramica, per dire, posso ambire al misticismo cosmico, if you know what I mean.  Con buona pace di Shiva, del saluto al sole e dell’arrivederci a sticazzi. Sono una fetenzìa di persona, lo so, grazie.

In ogni caso, in pochi giorni ho imparato un sacco di termini interessanti: Prayànama, Savàsana, Tadàsana, Utkatàsana.

E lo so, lo so e lo so che non ci crederà mai nessuno, ma esiste anche la posizione del SUHKASANA – motivo per il quale mi duole proprio abbandonare questa disciplina. Perchè avvicinarmi, io mi sono avvicinata. E’ proprio lo Yoga che si è scansato.

E sebbene con questo post mi sia giocata qualsiasi possibilità di reincarnazione futura – chessò – in Belen Rodriguez, sono comunque lieta di aver provato quest’esperienza. Se non altro perchè alla fine dell’ultima lezione, un Patty spirituale, ascetico, quasi mistico, mi ha preso la mano tra le sue, mi ha guardata con una devozione che mai gli avevo scorto negli occhi e ha mi ha sussurrato: “Torniamo a casa? Devo fare la Pisciàzzana”.

Inchino.

Applausi.

Sipario.



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