Zinneke Pis, by The Bulletin

Bruxelles

La Belgique c'est chic

Photo: Zinneke Pis, by The Bulletin

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In preda ad un improvviso desiderio di evasione dalla realtà, ho deciso di scappare per un po' in Belgio, che è un paese pieno di gente che parla francese senza essere francese e che ha per simbolo un ometto nudo che fa la pipì. Le premesse sono ottime.

Nonostante la mia generazione, ovvero quella dei trentenni italiani, sia probabilmente la più sfigata nella storia del mondo contemporaneo, vi sono alcuni aspetti positivi da non sottovalutare. Per esempio, il fatto che tutti noi, per periodi più o meno lunghi, abbiamo deciso di fare ciaociao con la manina alla tricolore penisola e migrare come le anatre mandarine verso paesi normali, implica che ognuno di noi abbia almeno un amico che vive all’estero. Nel mio caso, un buon 90% di essi è sparso in vari punti del globo terracqueo: ciò significa che dalle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno esiste un poverocristo disposto a cedermi un divano, una brandina o una manciata di piastrelle del bagno per un po’.

Questa è stata la volta di Bruxelles, che mi ha accolta sotto forma di Stefano e Julia, una coppia di amici di una bellezza quasi sconcertante. Julia è l’amica più figa che ho, e questo è stato decretato all’unanimità alle 6 del mattino del capodanno 2009 da una giuria composta da sole donne – ubriache come cucuzze e per questo sincere – quindi il giudizio è insindacabile. E’ una di quelle che quando le vedi ti viene da disseppellire Leopardi e dirgli fratello, ti capisco. Sarebbe fantastico se fosse un’idiota, almeno penseresti che esiste una giustizia divina: e invece è pure sperta, ‘sta stronza. Stefano invece lo conosco da quando avevo 12 anni: insieme abbiamo condiviso gavette, camminate nei boschi, nodi piani e docce ghiacciate. Una mattina, durante un campo estivo con gli scout, ci siamo risvegliati in un prato verdissimo, con due cavalli che si accoppiavano a un metro dai nostri occhioni adolescenti. Non avevo mai visto un pisello così gigante. Era quello del cavallo, per intenderci. Credo che buona parte delle mie turbe mentali siano nate quella mattina lì. Stefano sembrava averla presa con più filosofia, invece anni dopo è diventato il web designer di questo blog; tutto torna. Loro due – Ste e Ju, non Stefano e il cavallo – stanno insieme da tipo millemila anni. Lui cucina e tiene la casa in ordine, lei mangia senza ingrassare: ditemi voi se non sono le basi per un futuro radioso.

Insomma, quando sono arrivata a Bruxelles ho sentito subito che questa città mi avrebbe dato delle soddisfazioni: inaspettato sole, cielo azzurro e soprattutto gente che parla francese senza essere francese. So’ soddisfazioni, signora mia. Seguendo le indicazioni di Ju mi sono subito diretta verso la fermata di metro Merode che, letta alla romana, era anche la più appropriata al mio stato d’animo antecedente alla partenza. Durante questa prima corsa un figone spaziale di cui preferirei non svelare l’età, si siede davanti a me, mi sorride e mi dice che sono charmante. Brevemente, daje de tacco e daje de punta, prima di arrivare dai miei amici avevo già rimediato il numero di telefono. Inutile altresì specificare che nel giro di pochi minuti nun me rodeva più così tanto. Come comitato d’accoglienza mi pare che ci siamo.

Ora, a me piacerebbe un sacco sparare a zero sul Belgio – anche solo per sport, ‘nzomma –  e invece non è successo niente che mi abbia fatto desiderare lo sterminio di massa dell’intera popolazione. Sarà che venivo da Biella e pure la Siria mi sarebbe parsa uno scenario di pace e prosperità? Può essere, ma no, non credo.

Quello che credo è che a Bruxelles ho respirato da subito un’aria buona, ho sentito un sacco di quelle piccole vibrazioni positive che non sai mai spiegare a parole ma che ti fanno bene al cuore, che è piena di gente che viene da posti diversi, che ci sono un sacco di piazze carine per limonare, che la birra può affascinare persino me che ho un grappolo d’uva al posto dell’esofago, che le frites sono molto frites, che ci sono artisti di strada ad ogni angolo e che il Manneken Pis ha un pisellino piiiiccolo piccolo ma proporzionato all’altezza.

I Brussellesi, invece – oltre a dimostrarsi dei gran buongustai in fatto di donne, ma che ve lo dico a fa’ – approfittano del sole tutte le volte che miracolosamente appare, si godono la vita senza troppa pressione, si salutano per strada, sorridono e perdono pure del tempo per darti indicazioni. E tutto questo lo fanno parlando in francese: ci troviamo davanti ad uno scollamento dalla realtà, concorderete con me, nevvero? Oltre a tutto questo, fanno una cosa per cui dovrebbero essere insigniti del Nobel per la Serenità Mentale: chiamano i numeri come le persone normali. Invece di “quatre-vingt-dix” – 90, Gesummmmmmio, 90 –  questi dicono “nonante”. Papa Francesco, pensi si possa avviare un processo di beatificazione con posta celere? Secondo me merita, poi vedi tu.

Una sera, mentre mangiavamo una squisita carbonade tutti e tre insieme, seduti al tavolo di un ristorante di Gent in cui abbiamo rischiato di morire assassinati da una francese isterica e poi abbiamo assistito a un divorzio fiammingo, Stefano mi ha fissata e mi ha detto: “Vedi? Forse il senso del Belgio consiste nel togliersi un pezzetto di carbonade dai denti utilizzando una frite. E poi sciacquarsi la bocca con una birra.” Non so voi, ma io l’ho trovato poetico.

In attesa di dare un senso mio al Belgio, aggiungo solo che Bruxelles è una città tutto sommato piccola, una di quelle dove non si perderebbe neanche un bambino. E infatti io mi sono persa.

Però in qualche modo che devo ancora capire, mi sa che forse mi sono ritrovata.



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